lunedì 19 luglio 2010

Il Maometto di Borgone

Ad osservarla dal finestrino di un treno, o da quello di un’auto, la Valsusa sprigiona un antico fascino, ma solo abbandonando i grossi canali di comunicazione ed addentrandosi per le vie provinciali lo si percepisce appieno. Percorrendo la stradina che serpeggia tra giganti rocciosi, che passa sotto speroni di pietra, sentinelle incuranti del tempo, quinte di rara bellezza per l’occhio dell’osservatore sensibile, si ammira la natura nella sua forma più semplice e bella. Ecco slanciate nell’azzurro cielo le pallide betulle, ecco il castagneto ove le signore del miele vanno e vengono laboriose dalle loro colorate casette. Qui, se sei curioso e se ami il passato, ti puoi concedere un tuffo all’indietro nel tempo. Puoi riscoprire un menhir, un disegno rupestre, o un segno remoto dall’epoca da cui hai avuto origine e alla quale senti d’appartenere.

Il mondo corre, ma in Valsusa c’è ancora chi crede nella qualità della vita, c’è chi è legato al passo vetusto, quello a misura d’uomo, così lento da cogliere gli aspetti più profondi ed antichi di questo nostro amato pianeta. Gli anziani sono depositari del sapere e per loro tramite si recupera la memoria e la percezione di ciò che altrimenti andrebbe perduto. Al soffio della brezza gentile (“l’aria da souta”, la chiamano qui) l’istinto prende il sopravvento, attacca la voglia di correre, di saltare, di posare le mani sulla terra, d’accarezzare l’erba, di toccare la foglia, d’odorare il fiore, d’ascoltare il ruscello… di lasciare che l’Io vaghi libero. La solitudine ed il silenzio non sono più tali e divengono la giusta condizione per entrare in un’altra dimensione e tutto si fa chiaro. Il grande disegno si rivela e noi siamo lì a sorridere al verso del merlo.

“Maometto”: ad indicare il luogo ora c’è un cartello, prima solo chi era nativo di questi luoghi sapeva dove fosse. Prima un sentiero solitario attraversava il prato e andava a cozzare contro la montagna per poi girarci intorno, ora una bella stradina lastricata in pietra ti conduce fino al sito. Una parte dei fondi europei per il turismo versati alla Regione Piemonte sono finiti qui. Utili, certo, ma che rivelano la piovra della globalizzazione giunta a sconvolgere gli equilibri e spezzare l’armonia che si installa tra natura, epoche passate e spirito dell’uomo.

Se non domandavi ad uno del posto, prima "Il Maometto" non lo trovavi, ma anche adesso, se segui il cartello, se percorri la stradina (accidenti, anche in macchina se vuoi!) non lo trovi.. Se non sai cosa guardare, cosa cerchi, se non sei con uno che ti spiega, non trovi e non capisci un’accidenti di niente!

Neanche sai che cosa è “Il Maometto!”

“Maometto” è il nome di una zona, dato dalla tradizione popolare, ad una zona abitata nel passato da pagani. Certo gli storici troverebbero da obbiettare su questa definizione. Il Profeta Mussulmano nacque nel 570 d.C., un’epoca successiva a quella attribuita al luogo. Infatti, lungo il sentiero che conduce al sito, vi sono una serie di muretti in pietra, disposti

secondo la possibile pianta d’un piccolo villaggio, risalenti ad un periodo preromanico.

Se visitate questo luogo da soli, senza null’altra compagnia che quella del vostro respiro, percepirete che qui hanno abitato molte persone e molte, ne sono venute in visita. Ma avvertirete anche qualcosa d’inquietante, o forse la percepisco solo io che mi sono lasciato suggestionare da ciò che ho sentito dai vecchi e che le lunghe ombre del sole morente incrementa. Si dice, infatti, che qui venivano celebrati sabba di streghe (masche in piemontese) e riti sacrificali.

Risalendo il sentiero, e lasciandosi i muretti alle spalle, si giunge ad un bosco di betulle, ove sta un masso che porta scolpita la lavorazione incompiuta di due grosse macine da mulino (diametro 150 cm, spessore 30 cm.). Quale sia stata la funzione di questa grossa pietra erratica nei secoli passati, è difficile stabilirlo. C’è chi ipotizza che le due sporgenze circolari fossero usate per sacrifici rituali, chi le definisce come l’abbozzo di un’opera architettonica, chi le fasi embrionali di un rudimentale attrezzo meccanico. È probabile che la pietra abbia adempito a tutte queste funzioni lungo i periodi storici che ha attraversato. Tutt’intorno al masso stanno sparsi primitivi anfratti costruiti a secco con pietre di forma e dimensioni irregolari, la loro realizzazione sembra essere avvenuta tra la fine dell’età del bronzo e la prima fase di quella del ferro (II millennio a.C.), rivelando così che il luogo era abitato già nell’età preistorica.

Ad Est del masso erratico si apre uno spiazzo erboso delimitato da un promontorio sulla cui parete rocciosa sta la scultura che da il nome alla località: “L’Arca del Maometto”. Nei libri è descritta come “incisione a forma di tempietto (80 x 65 cm) con figura umana con mantello e cane”, ma il cane io non sono riuscito ad determinarlo. La definizione fu coniata alcuni anni or sono quando la scultura era più definita, ora rimane difficoltoso persino individuare l’uomo col mantello. Pare che un tempo fossero visibili, sul frontone triangolare, i resti di un’incisione latina “V S L M” (Votum Solvit Libens Merito). Forse un voto ad un’antica divinità, motivo per il quale alla figura fu attribuita l’identità dell’hittita Giove Dolicheno, il cui culto fu importato dalle legioni romane di ritorno dalle guerre in Asia insieme alla religione mitraica che si diffuse in Italia tra il II e il III secolo. Giove Dolicheno, come Mitra, aveva un culto misterioso, in cui si riteneva che il dio propiziasse il successo e la sicurezza dell'organizzazione militare. Ma la scultura potrebbe ispirarsi anche a Diana cacciatrice (Artemide nella mitologia greca), o ad Annibale, il quale sostò in questa valle coi suoi eserciti. O al dio dei boschi Vertumnus, adorato dagli Etruschi e da loro chiamato Velthumna. Oppure a qualche divinità dei Celti, che si spostarono in lungo e in largo per i corridoi alpini; dalla Gallia alla Spagna, e poi a Ovest verso la Germania. Intorno al 450 a.C. un folto gruppo di Celti superò le Alpi ed occupò la valle Po per poi scendere verso Roma e la Sicilia. I Celti furono signori di queste montagne dal 540 a.C. e lo rimasero sino all’arrivo di Giulio Cesare, nel 58 a.C.. Essi continuarono a venerare i loro dei anche sotto la dominazione romana che tollerava le loro usanze così da non creare malumori tra popolazioni locali e miliziani. Fu solo con l’affermarsi del Cristianesimo che gli usi dei Celti furono definiti pagani e banditi. Chi si ostinava a praticarli fu tacciato di stregoneria, demonizzato e condannato al rogo.

Proprio per via della forma delle lettere, ora non più visibili, sul frontone dell’Arca del Maometto, la classificazione cronologica della stessa venne supposta attorno al II, III secolo d.C.. Resta verosimile che l’uomo col mantello avrebbe potuto raffigurare sia un druido che una divinità romanica, sicuramente non un profeta arabo. Tuttavia, per guardare l’incisione, bisogna rivolgersi a sud, nella direzione della Mecca, ed è probabile che l’icona sia stata usata dai Saraceni, che dallo stanziamento provenzale di Frassineto si spostarono sin qui, per le loro preghiere rituali. E forse proprio per via di quelle genti straniere che i valligiani attribuirono il nome di “Maometto” a questa località.

Molte ipotesi dunque, ma anche una certezza, essa riguarda il ritrovamento di uno scheletro disposto nella nuda terra, delimitato da una fila di lastroni in pietra. Tra le ossa è stato rinvenuto un omero fratturato e non calcificato, che indica come il momento della frattura coincida con la morte dell’uomo. Questo particolare ha permesso agli studiosi di datare il reperto intorno al 1.000, 1.500 a.C.. Allo stesso periodo storico sono riferiti i numerosi fori scavati nella parete rocciosa antistante il ritrovamento dello scheletro. Sono buchi tondi, di varia grandezza, quasi certamente destinati a ricevere offerte secondo i costumi d’origine preromanica.

Tirando le somme dunque il Maometto è un luogo antico, abitato fin dalle epoche remote da diverse genti di variegata origine e formazione religiosa, che si sono alternate nei secoli lasciando il segno del loro passaggio.


Ed io… che ci faccio qui?

16/04/2008

Cenni bibliografici:

Riccardo Chiarle: Panorami - 2007

Lanza, Monteglio: I Romani in Val di Susa – 2001 Ed. Susa Libri

Centini: Saraceni nelle Alpi – 1997 Priuli & Verlucca

2 commenti:

  1. solo le foto le conosco perchè vicino c'è la mia scuola!! il disegno in vece no1!!!

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  2. Quando vengo a casa te lo mostro.

    Ciao stellina!
    massimo

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