venerdì 23 luglio 2010

Casellette-Borgone (II parte): Difficoltà tecniche


Studio sulla carta geografica il percorso e per comodità lo divido in tre tratti. Da Casellette al Col del Lys, dal Col del Lys al Colombardo, dal Colombardo a Borgone.
Analizzo il primo tratto, ‘Cassellette-Lys’: da Casellette fino alla croce del Musinè non c’è problema, la strada l’ho già fatta altre volte e la conosco, ma trovare la via che dalla croce porta al Col del Lys è tutt’altra faccenda.
Il secondo tratto, ‘Lys-Colombardo’, mi è del tutto sconosciuto.
Il terzo tratto, ‘Colombardo-Borgone’, mi è famigliare, sono le montagne vicine a casa e le conosco bene.
Per compiere il tragitto nella sua interezza credo che occorrano due o tre giorni con tanto di pernottamento nei boschi. Ma può un padre coscienzioso, un tenero marito, che ama bimbe e moglietta più d’ogni cosa al mondo e che in tanti anni non ha mai mancato d’augurare la buona notte alle sue tre gioie, assentarsi giorni e notti solo per dare soddisfazione ad un suo capriccio?
La risposta e ovviamente un “no”.
Ci vuole una buona idea, la chiamo e lei arriva a soccorrermi. Mi dice di percorrere a più riprese il tragitto, di trovare la via e tornarci poi con la famiglia al gran completo, magari d’estate.
Non male come pensata, peccato che per andare a Casellette mi serva l’auto, e che a casa mia ce ne sia una sola, e che Cinzia la usi tutti i giorni per portare le bimbe a scuola.
Una soluzione però ci sarebbe: si chiama Cimmeria.
A metà degli anni ’80 acquistai un telaio Cannondale in alluminio, uno dei primi usati per bici da montagna. Me lo vendette ad una cifra irrisoria il mio amico Salvatore, un corridore fortissimo. Montai il Cannondale con materiale di seconda mano, ma di ottima qualità, e venne fuori una bella bicicletta. Poiché la bici era di colore nero, la battezzai “Cimmeria”, come la terra dai lunghi inverni che diede i natali a Conan il barbaro.
Cimmeria è ora smontata, appoggiata all’angolo sinistro del mio piccolo garage e sepolta da una quantità di rumenta indescrivibile. A casa nostra non c’è la cantina ed al garage tocca svolgere anche quel compito. Cimmeria sta sotto un’enormità di vettovaglie, imprigionata da scatoloni colmi di abbigliamento da bici dimesso, da assi di legno grosse e piccole, dalla tenda per il campeggio, dai sacchi a pelo, dal fornello a gas, dal tavolo, dalle sedie e dalle bici delle bimbe. Cimmeria è stata in garage sotto il tumulo di cianfrusaglie per anni, ma ora che mi è tornata in mente le cose cambieranno. Non esiste al mondo mezzo migliore per risolvere i miei problemi di trasporto, per scorazzare liberamente nella valle, fuori e dentro l’asfalto, e dar così vita al mio progetto. Di buona lena mi dedico al ripulisti del garage ed esumo il telaio impolverato. Rimonto sella, pedali, manubrio e ruote. Sostituisco catena, pignoni e fili dei freni. Lubrifico tutte le parti meccaniche. Sono felice nel ridar vita alla bicicletta, soffro a non usare le cose che acquisto. Cerco di non farmi prendere dal meccanismo del consumismo, ma talvolta ci casco e compro oggetti che poi stanno inusati in qualche angolo della casa. Da alcuni anni a questa parte tento di porre rimedio a questa inclinazione, mi disfo del superfluo e tengo solo ciò che mi occorre. Le bici, quella da montagna e quella da strada, fanno parte del mio passato di corridore e non sono mai stato capace di darle via.
L’avere corso in bicicletta per tanti anni, mi ha portato ad accumulare parecchi pezzi di ricambio, che certo nulla hanno a vedere con la qualità dei moderni materiali con cui sono equipaggiate le bici di oggi, ma che vanno ancora bene. Ho tenuto con cura per anni questa roba ed il solo pensiero di riuscire ora ad utilizzarla mi rende felice. Quando finisco ho le mani sporche di grasso, ma Cimmeria è lustra come se fosse appena uscita dalla bottega di un mastro artigiano. Non ho però camere di scorta con la valvola fine: decido di andare da Sergio (cicli Giai) a Sant’Ambrogio, e procurarmene un paio. Sono parecchi anni che non vedo Sergio, un tempo eravamo amici ma adesso chissà? Da quando ho smesso di correre, mi sono completamente estromesso da giro degli amici di bici, ho tagliato i ponti con tutti. Ho reciso anni di amicizie, abitudini, attitudini. D’altronde la bici chiede molto ai corridori e uno col mio carattere non ha alternative se non quella di dare un taglio netto e chiudere col passato. Incapace di guardare altri godere del mio amore per la bici e impossibilitato a praticarlo di persona a causa del tempo tiranno, non ho lasciato alcuna appendice che avrebbe potuto causarmi sofferenza. Nessuno ha provato a rimettermi in sella. Per gli amici corridori non è stato difficile rispettare la mia scelta presi come sono da gare, allenamenti, massaggi e meccanica.
Così sono messo io quando entro nel negozio di Sergio, sono un ex corridore sparito dalla circolazione che va a comprare due camere per la sua vecchia muntan bike. Chissà come mi accoglierà il mio vecchio amico? Sarà freddo? Gli farà piacere vedermi? Una volta mi chiamava fratello.

«Fratello!» esclama Sergio non appena mi vede. Sospende di montare la bici appesa al cavalletto e corre ad abbracciarmi. Mi mostra le foto del suo matrimonio e rievoca i bei tempi passati, quando si andava in giro a correre e a fare i mattatori sulle strade d’Italia.
«Questo era una bestia!» dice al giovane meccanico che lo aiuta in negozio. «Non mollava mai. Entrava in tutte le fughe e al momento buono ci ficcava la zampata». Io sorrido, fa sempre piacere ricevere complimenti. A casa ho coppe e medaglie che mi ricordano le glorie passate, ma alle volte mi sembra che siano di un’altra persona.
Mi faccio dare un filo nuovo per il cambio ed intanto butto un’occhiata ai prezzi delle calzature. Con gli anni mi si è allargata la pianta del piede e le vecchie scarpe da MTB mi vanno un po’ strette. Quelle meno costose ammontano a 160 euro: cavoli che cifre! Non ho certo intenzione d’affrontare una simile spesa.«Sergio» dico, «chissà se nel tuo giro di ciclisti c’è qualcuno che si vuole disfare delle sue scarpe da MTB. Sai, le mie stringono un po’, ma piuttosto che spendere 160 euro mi tengo il male ai piedi.»
«Quando fai così mi sembri Totò!» dice. Totò sarebbe il nostro comune amico Salvatore, quello del Cannondale.
«L’hai più visto?» domando.
«Si» dice Sergio, «ogni tanto mi passa a trovare e mi fa impazzire, però è simpatico.»
«Già» dico. «Io è da un po’ che non lo vedo.»
Sergio prende una busta di nylon sotto uno scaffale, dentro c’è qualcosa, me la butta.
«Scarpe Diadora numero 43» dice. «Le ho usate due volte, provale.»
Le indosso. Sono perfette. Hanno le clips a sgancio rapido, ma sono senza tacchette.
«I miei pedali sono degli “XT” primo modello, hai due tacchette da montare?» chiedo. «Preferibilmente usate.»
«Certo» dice Sergio.
Rovista in un cassetto finché le trova. Le monta sulle scarpe e me le fa riprovare.
«Ti vanno bene?» domanda.
«Sicuro» dico. «Quanto ti devo?»
«Lascia stare.» Dice imitando la voce di Totò. «Prendi e porta a casa! E vai in bici piuttosto!»
«Grazie» dico.
«La senti la ripresa?» domanda Sergio ridendo, e per ripresa intende la voglia di ritornare a pedalare.«La sento accidenti a te! Eccome se la sento!»
14/3/2008

lunedì 19 luglio 2010

Casellette-Borgone (I parte): L'idea


... Ed ecco venirmi lidea.

Ehi, lo so che non è un granché, ma è quanto di meglio al momento m’è dato produrre. L’idea consiste nel partire dal primo monte che si trova all’imbocco della Valsusa, il Musinè, e tornarmene a casa passando per le creste della valle.


Bello? Alla mia portata? Realizzabile?

Oh no?

13/02/2008

Il Maometto di Borgone

Ad osservarla dal finestrino di un treno, o da quello di un’auto, la Valsusa sprigiona un antico fascino, ma solo abbandonando i grossi canali di comunicazione ed addentrandosi per le vie provinciali lo si percepisce appieno. Percorrendo la stradina che serpeggia tra giganti rocciosi, che passa sotto speroni di pietra, sentinelle incuranti del tempo, quinte di rara bellezza per l’occhio dell’osservatore sensibile, si ammira la natura nella sua forma più semplice e bella. Ecco slanciate nell’azzurro cielo le pallide betulle, ecco il castagneto ove le signore del miele vanno e vengono laboriose dalle loro colorate casette. Qui, se sei curioso e se ami il passato, ti puoi concedere un tuffo all’indietro nel tempo. Puoi riscoprire un menhir, un disegno rupestre, o un segno remoto dall’epoca da cui hai avuto origine e alla quale senti d’appartenere.

Il mondo corre, ma in Valsusa c’è ancora chi crede nella qualità della vita, c’è chi è legato al passo vetusto, quello a misura d’uomo, così lento da cogliere gli aspetti più profondi ed antichi di questo nostro amato pianeta. Gli anziani sono depositari del sapere e per loro tramite si recupera la memoria e la percezione di ciò che altrimenti andrebbe perduto. Al soffio della brezza gentile (“l’aria da souta”, la chiamano qui) l’istinto prende il sopravvento, attacca la voglia di correre, di saltare, di posare le mani sulla terra, d’accarezzare l’erba, di toccare la foglia, d’odorare il fiore, d’ascoltare il ruscello… di lasciare che l’Io vaghi libero. La solitudine ed il silenzio non sono più tali e divengono la giusta condizione per entrare in un’altra dimensione e tutto si fa chiaro. Il grande disegno si rivela e noi siamo lì a sorridere al verso del merlo.

“Maometto”: ad indicare il luogo ora c’è un cartello, prima solo chi era nativo di questi luoghi sapeva dove fosse. Prima un sentiero solitario attraversava il prato e andava a cozzare contro la montagna per poi girarci intorno, ora una bella stradina lastricata in pietra ti conduce fino al sito. Una parte dei fondi europei per il turismo versati alla Regione Piemonte sono finiti qui. Utili, certo, ma che rivelano la piovra della globalizzazione giunta a sconvolgere gli equilibri e spezzare l’armonia che si installa tra natura, epoche passate e spirito dell’uomo.

Se non domandavi ad uno del posto, prima "Il Maometto" non lo trovavi, ma anche adesso, se segui il cartello, se percorri la stradina (accidenti, anche in macchina se vuoi!) non lo trovi.. Se non sai cosa guardare, cosa cerchi, se non sei con uno che ti spiega, non trovi e non capisci un’accidenti di niente!

Neanche sai che cosa è “Il Maometto!”

“Maometto” è il nome di una zona, dato dalla tradizione popolare, ad una zona abitata nel passato da pagani. Certo gli storici troverebbero da obbiettare su questa definizione. Il Profeta Mussulmano nacque nel 570 d.C., un’epoca successiva a quella attribuita al luogo. Infatti, lungo il sentiero che conduce al sito, vi sono una serie di muretti in pietra, disposti

secondo la possibile pianta d’un piccolo villaggio, risalenti ad un periodo preromanico.

Se visitate questo luogo da soli, senza null’altra compagnia che quella del vostro respiro, percepirete che qui hanno abitato molte persone e molte, ne sono venute in visita. Ma avvertirete anche qualcosa d’inquietante, o forse la percepisco solo io che mi sono lasciato suggestionare da ciò che ho sentito dai vecchi e che le lunghe ombre del sole morente incrementa. Si dice, infatti, che qui venivano celebrati sabba di streghe (masche in piemontese) e riti sacrificali.

Risalendo il sentiero, e lasciandosi i muretti alle spalle, si giunge ad un bosco di betulle, ove sta un masso che porta scolpita la lavorazione incompiuta di due grosse macine da mulino (diametro 150 cm, spessore 30 cm.). Quale sia stata la funzione di questa grossa pietra erratica nei secoli passati, è difficile stabilirlo. C’è chi ipotizza che le due sporgenze circolari fossero usate per sacrifici rituali, chi le definisce come l’abbozzo di un’opera architettonica, chi le fasi embrionali di un rudimentale attrezzo meccanico. È probabile che la pietra abbia adempito a tutte queste funzioni lungo i periodi storici che ha attraversato. Tutt’intorno al masso stanno sparsi primitivi anfratti costruiti a secco con pietre di forma e dimensioni irregolari, la loro realizzazione sembra essere avvenuta tra la fine dell’età del bronzo e la prima fase di quella del ferro (II millennio a.C.), rivelando così che il luogo era abitato già nell’età preistorica.

Ad Est del masso erratico si apre uno spiazzo erboso delimitato da un promontorio sulla cui parete rocciosa sta la scultura che da il nome alla località: “L’Arca del Maometto”. Nei libri è descritta come “incisione a forma di tempietto (80 x 65 cm) con figura umana con mantello e cane”, ma il cane io non sono riuscito ad determinarlo. La definizione fu coniata alcuni anni or sono quando la scultura era più definita, ora rimane difficoltoso persino individuare l’uomo col mantello. Pare che un tempo fossero visibili, sul frontone triangolare, i resti di un’incisione latina “V S L M” (Votum Solvit Libens Merito). Forse un voto ad un’antica divinità, motivo per il quale alla figura fu attribuita l’identità dell’hittita Giove Dolicheno, il cui culto fu importato dalle legioni romane di ritorno dalle guerre in Asia insieme alla religione mitraica che si diffuse in Italia tra il II e il III secolo. Giove Dolicheno, come Mitra, aveva un culto misterioso, in cui si riteneva che il dio propiziasse il successo e la sicurezza dell'organizzazione militare. Ma la scultura potrebbe ispirarsi anche a Diana cacciatrice (Artemide nella mitologia greca), o ad Annibale, il quale sostò in questa valle coi suoi eserciti. O al dio dei boschi Vertumnus, adorato dagli Etruschi e da loro chiamato Velthumna. Oppure a qualche divinità dei Celti, che si spostarono in lungo e in largo per i corridoi alpini; dalla Gallia alla Spagna, e poi a Ovest verso la Germania. Intorno al 450 a.C. un folto gruppo di Celti superò le Alpi ed occupò la valle Po per poi scendere verso Roma e la Sicilia. I Celti furono signori di queste montagne dal 540 a.C. e lo rimasero sino all’arrivo di Giulio Cesare, nel 58 a.C.. Essi continuarono a venerare i loro dei anche sotto la dominazione romana che tollerava le loro usanze così da non creare malumori tra popolazioni locali e miliziani. Fu solo con l’affermarsi del Cristianesimo che gli usi dei Celti furono definiti pagani e banditi. Chi si ostinava a praticarli fu tacciato di stregoneria, demonizzato e condannato al rogo.

Proprio per via della forma delle lettere, ora non più visibili, sul frontone dell’Arca del Maometto, la classificazione cronologica della stessa venne supposta attorno al II, III secolo d.C.. Resta verosimile che l’uomo col mantello avrebbe potuto raffigurare sia un druido che una divinità romanica, sicuramente non un profeta arabo. Tuttavia, per guardare l’incisione, bisogna rivolgersi a sud, nella direzione della Mecca, ed è probabile che l’icona sia stata usata dai Saraceni, che dallo stanziamento provenzale di Frassineto si spostarono sin qui, per le loro preghiere rituali. E forse proprio per via di quelle genti straniere che i valligiani attribuirono il nome di “Maometto” a questa località.

Molte ipotesi dunque, ma anche una certezza, essa riguarda il ritrovamento di uno scheletro disposto nella nuda terra, delimitato da una fila di lastroni in pietra. Tra le ossa è stato rinvenuto un omero fratturato e non calcificato, che indica come il momento della frattura coincida con la morte dell’uomo. Questo particolare ha permesso agli studiosi di datare il reperto intorno al 1.000, 1.500 a.C.. Allo stesso periodo storico sono riferiti i numerosi fori scavati nella parete rocciosa antistante il ritrovamento dello scheletro. Sono buchi tondi, di varia grandezza, quasi certamente destinati a ricevere offerte secondo i costumi d’origine preromanica.

Tirando le somme dunque il Maometto è un luogo antico, abitato fin dalle epoche remote da diverse genti di variegata origine e formazione religiosa, che si sono alternate nei secoli lasciando il segno del loro passaggio.


Ed io… che ci faccio qui?

16/04/2008

Cenni bibliografici:

Riccardo Chiarle: Panorami - 2007

Lanza, Monteglio: I Romani in Val di Susa – 2001 Ed. Susa Libri

Centini: Saraceni nelle Alpi – 1997 Priuli & Verlucca

giovedì 15 luglio 2010

A proposito dell'acqua

Dalla terra nasce l’acqua, dall’acqua nasce l’anima…

È fiume, è mare, è lago, stagno, ghiaccio e quant’altro…
è dolce, salata, salmastra,
è luogo presso cui ci si ferma e su cui ci si viaggia
è piacere e paura, nemica ed amica
è confine ed infinito
è cambiamento e immutabilità ricordo ed oblio.

(Eraclito)


Mi sono imbattuto nella parola inglese waterboarding l’ho tradotta come “copertura d’acqua”. Ho pensato che fosse un nuovo sport, forse confondendolo con wakeboards, una specie di surf acrobatico praticato con una tavola più piccola…

Quanto mi sbagliavo!

Nell’aprile 2006 oltre cento professori di legge statunitensi dichiarano che il waterboarding è tortura, ed è pertanto punibile in base al codice penale federale U.S.A. Il waterboarding consiste nell’immobilizzazione della vittima e nella simulazione di un suo annegamento rovesciandogli secchiate d’acqua sul volto. Ciò produce, nel malcapitato, la terrorizzante sensazione di morte per annegamento. Secondo la legge, “la minaccia di morte imminente”, è definizione di tortura.Pochi giorni fa, il portavoce della Casa Bianca ha detto che l’annegamento simulato è stato usato ed è una pratica legale. Il presidente Bush si riserva il diritto di autorizzare la CIA ad adoperarlo nuovamente se le circostanze lo dovessero richiedere. Dick Cheney, Vice Presidente degli USA, non ritiene che “un tuffo nell’acqua” sia una forma di tortura, mentre, secondo il Senatore John McCain che subì torture come prigioniero nella guerra del Nord Vietnam, il waterboarding è una tortura intensa e può danneggiare in maniera irreversibile la psiche del soggetto.Cesare Beccaria famoso giurista, filosofo e letterato aveva, già nel ’700, analizzato a fondo il problema ed era arrivato alla conclusione che non si deve torturare, mai! Un paese civile non si serve della tortura per far parlare un reo confesso, la tortura non è strumento idoneo per scoprire la verità, la tortura innesca in chi se ne serve un processo di decivilizzazione, di mancanza di principi. La violenza dell’uomo dev’essere gestita con delle regole e con l’applicazione di esse.

12/02/2008

Ritorno...


Neve mista a pioggia lungo la tratta pendolare Segusina che mi riporta a casa. La mia vecchia macchina a telemetro ha rubato questo scatto. Un fotogramma estratto da un rullino 35 mm a colori, scaduto, ma conservato in frigorifero per non perdere le proprietà delle emulsioni. Una brutta foto.
30/12/2008